Spesso diventiamo più bravi nell’usare gli attrezzi quando essi ci pongono un problema da superare, e questo avviene di solito proprio quando non sono perfetti, non sono ad hoc. Magari sono un po’ scadenti, oppure è difficile capire come maneggiarli. Il problema da superare si fa più pressante quando ci tocca usarli per correggere o disfare un errore. Tanto nella creazione quanto nella riparazione, il problema può essere superato adattando la forma dell’attrezzo così com’è, usandolo in modo non previsto. In entrambi i casi, sarà stata l’imperfezione dell’attrezzo a insegnarci qualcosa.

Richard Sennett, L’uomo artigiano

L‘artigianato fa parte di un mondo che precede la separazione fra l’utile e il bello. Questa separazione è più vicina a noi di quel che normalmente si crede. Molti degli artefatti che sono ospitati in musei e collezioni private, in precedenza erano stati parte di quel mondo in cui la bellezza non era un valore isolato ed autonomo. …
È forse superfluo ripetere che l’arte non è un concetto: l’arte è una cosa dei sensi.
La sovrapproduzione di oggetti sempre più perfetti ed uguali è la precisa controparte della consacrazione dell’opera d’arte come oggetto unico. …
La bellezza del design industriale è di natura concettuale: se esprime qualcosa, è la precisa accuratezza di una formula. È il segno di una funzione. La sua razionalità lo confina ad una e solo ad una alternativa: o funziona o non funziona. Nel secondo caso finisce in discarica.
Non è solo la sua utilità che rende un pezzo d’artigianato così interessante. Questo dipende anche da una complicità intima con i nostri sensi ed è per questo che è così difficile disfarsene. È come buttare via un vecchio amico.

(Octavio Paz, Uso e contemplazione)

“Fatto dalla mano dell’uomo, il pezzo d’artigianato conserva l’impronta – concreta o metaforica – del suo costruttore. Questa impronta non è la firma dell’artista. Non è neanche un marchio di fabbrica. Piuttosto è un segno: una cicatrice poco visibile, sbiadita, che ci ricorda la fratellanza originale degli esseri umani e la loro separazione”.
Octavio Paz

un frammento dal libro “SCRITTO DI NOTTE” di Ettore Sottsass

In quei giorni lenti di due estati, di due autunni e due inverni dopo la fine della guerra, provavo anche a dipingere su carta o su legno con tempere o colori a cera. Provavo come un forsennato finendo sempre mezzo morto perchè tutta l’energia che avevo nel corpo la consumavo a fare arrivare qualcosa di ignoto sulla carta o sul legno.
Così mi aveva insegnato il mio eccezionale amico Spazzapan: Quello che resta quando il fuoco se n’è andato, quello è l’ignoto che ti resta nelle mani.L’ignoto è apparso sulla carta, l’ignoto è apparso sul legno, l’ignoto è apparso e tu sei sparito, esausto. Insegnamento: tutto è ignoto. Stai lontano dalle certezze. Usa l’incertezza come gli altri usano le certezze.Spazzapan mi aveva raccontato un metodo possibile e in quei giorni lo stavo provando con tutta l’intensità intellettuale e di altro tipo che avevo a disposizione.Il metodo era lecito quando era prodotto da un’oscura necessità della storia, di quelle che nel tempo si autodefiniscono e anche si autodistruggono. Come le grandi colline di sabbia del deserto che il vento sconosciuto muove adagio. Molto adagio.

“Il pensare non funziona allo stesso modo quando si tratta semplicemente di pensare e quando si tratta di dare forma. L’artista plastico e persino l’artigiano, pensano molto con le mani”
María Zambrano

L’uso delle mani mi ridà il senso delle cose, elementare se vogliamo.
Il primordiale rapporto fisico col materiale. Me ne fa conoscere intimamente la forza, la debolezza, l’inclinazione; con il materiale le mani stabiliscono una sorte di complicità, di dialogo, di possibilità e, di riflesso, aumenta anche la conoscenza di me, della mia fisicità e di quanto questa sia impregnata di intelligenza, di senso e, in ultima istanza, di sentimento. Si può comprendere come la manualità possa essere utile alla formazione dell’uomo, al suo procedere nella sperimentazione e nel lavoro. Tutto ciò per compensare un moto che si è andato sempre più allargando tra me e la fisicità. Si rende utile al processo della decrescita che noi vogliamo che sia processo di riconquista di un equilibrio compromesso; per poter dire, con Robert Vachon: “Riconnettere con ritmi della terra, della luna, del sole”.

Riccardo Dalisi dal libro “Decrescita”

“Tra mano e l’utensile ha inizio un’amicizia che non avrà fine […]. Quando è nuovo, l’utensile non è fatto; bisogna che tra esso e le dita che lo impugnano si stabilisca un accordo formato di appropiazione progressiva […] e anche di una certa usura. Allora lo strumento diventa una cosa viva”. (H. Focillon)

<< La mano è azione: afferra, crea, a volte si direbbe che pensi. In stato di quiete, non è un utensile senz’anima un attrezzo abbandonato sul tavolo o lasciato ricadere lungo il corpo: in essa permangono, in fase di riflessione, l’istinto e la volontà d’azione, e non occorre soffermarsi a lungo per intuire il gesto che si appresta a compiere>>

(Henri Focillon, Elogio della mano, Parigi 1934)